Una volta l’avevo sentita in un’intervista radiofonica descrivere sé stessa come un’incantatrice di serpenti.
E tutte quelle pellicole che le sibilavano tra le mani, che le scivolavano tra le dita, ondulando veloci, erano i suoi serpenti.
Spire incessanti, da vagliare, sbrogliare, controllare, ricontrollare…
Come la vita, aveva detto, esattamente come la vita in sé.
Il futuro irrompeva verso di te. Disponevi di un singolo istante, mentre ti folgorava davanti, per tramutarlo in un passato edulcorato, riconoscibile, acconcio. Fotogramma dopo fotogramma, il domani palpitava nella tua stretta. Se non lo catturavi senza imprigionarlo, se non lo plasmavi senza romperlo, quella continuità di attimi, be’, nulla lasciavi dietro di te. Il tuo fine, il fine di lei, di tutti noi era di stampare e imprimere noi stessi in quei singoli pezzettini del futuro, che, al tocco, invecchiavano rapidamente in altrettanti ieri evanescenti.
Così era con i film.
Con una differenza: potevi riviverli, quanto spesso volevi. Nel futuro, nel presente, nel passato. Poi ricominciare, proiettandoti nel domani.
Quale pregnante mestiere gestire tre livelli del tempo: l’enorme invisibile futuro, l’esigua panoramica dell’adesso, lo sconfinato cimitero di secondi, minuti, ore, anni, millenni che germogliavano semi per accogliere gli altri due.
E se non gradivi alcuno dei tre fluenti fiumi del tempo?
Impugna le forbici. Taglia! Così! Ti senti meglio?
(“A graveyard for lunatics” Ray Bradbury, descrizione di Maggie Botwin, addetta al montaggio) (o di “cosa avrei voluto fare da grande”)